Un’ esecuzione - Graziella Martina - In Spagna con Mérimée

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Un'esecuzione

Valencia, 15 novembre 1830

Signore,  
per seguire la mirabile regola del teatro delle marionette, "sempre da più forte a più for­te", dopo aver descritto i combattimenti dei tori, non vedo altro mezzo che parlarvi di una esecu­zione. Ne ho appena vista una e, se avete il co­raggio di leggermi, ve ne renderò conto.
Prima però devo spiegarvi perché ho assistito a un'esecuzione. In un paese straniero è d'obbligo vedere tutto e si ha sempre paura che in un mo­mento di pigrizia o di disgusto si perda un tratto di costume locale curioso. Inoltre, la storia del disgraziato che hanno impiccato mi aveva inte­ressato e volevo vedere la sua fisionomia. Infine, ero contento di mettere alla prova i miei nervi. Ecco la storia del mio impiccato, un contadi­no dei dintorni di Valencia, di cui ho dimenticato di chiedere il nome, stimato e temuto per il suo carattere coraggioso e intraprendente. Era un seduttore. Nessuno ballava meglio di lui, nes­suno gettava più lontano l'asta né conosceva più storie. Non era litigioso, ma gli bastava poco per accendersi come un fiammifero. Se accompagna­va dei viaggiatori con il suo trombone in spalla, nessuno ladro osava fermarli, anche se avevano le valige piene di dobloni. Era un piacere vedere quest'uomo giovane, con la giacca di velluto appoggiata sulle spalle, passeggiare dondolando­si sulle gambe con un'aria di superiorità. In una parola, era un majo nel vero senso della parola, un dandy di classe inferiore e un uomo estrema­mente sensibile se punto sull'onore.

I Castigliani hanno un proverbio sui Valenciani che, secondo me, è completamente falso. Eccolo: "A Valencia, la carne è erba; l'erba è acqua; gli uomini sono donne e le donne... nul­la". Io certifico che la cucina di Valencia è eccel­lente e che le donne sono molto graziose, con la pelle più chiara che nel resto della Spagna. Per non parlare poi di cosa sono gli uomini di que­sta città.
C'era un combattimento di tori e il majo vo­leva vederlo, pur non avendo neanche un reale nella cintura. Contava che un suo amico, volon­tario realista, che quel giorno era di guardia all'entrata, lo avrebbe lasciato passare. Proprio per nulla. Il volontario lo respinse con rudezza, dandogli un colpo nello stomaco con il calcio della sua arma. Il majo se ne andò, ma quelli che videro il pallore del suo volto, le mani strette con forza a pugno, le narici dilatate e l'espressio­ne degli occhi, pensarono che sarebbe successa qualche disgrazia.

Quindici giorni dopo, il volontario brutale fu mandato all'inseguimento di alcuni contrabban­dieri, con il suo distaccamento. Si fermò a dormi­re in un albergo isolato (venta) e la notte si sentì chiamare: "Aprite - diceva la voce - è da parte di vostra moglie". Il volontario scese mezzo svestito ma, appena ebbe aperto la porta, un colpo di spingarda gli bruciò la camicia e gli scaricò una dozzina di palle nel petto. L'omicida si dileguò immediatamente. Chi era stato? Nessuno poteva dirlo. Sicuramente non era stato il majo. Una dozzina di donne, fedeli realiste, erano pronte a giurare, in nome del loro santo e baciandosi il polso, di averlo visto nel proprio villaggio nel momento in cui veniva commesso l'omicidio.
Il majo si faceva vedere in pubblico con la fronte distesa e l'aria serena di chi si è liberato di un fastidio. A Parigi, ci si fa vedere così da Tortoni la sera in cui, nel corso di un duello, si è coraggiosamente spezzato il braccio a un imper­tinente. Ma qui in Spagna l'assassinio è una for­ma di duello dei poveri e un affare che spesso si conclude con la morte dei due contendenti, ben più serio che da noi, dove le persone della buo­na società si graffiano più che uccidersi.

Tutto andò bene fino a quando un certo alguazil, dotato di zelo esagerato - secondo alcuni per­ché era nuovo del mestiere, secondo altri perché era innamorato di una donna che gli preferiva il majo - decise di arrestare quell'uomo amabile. Finché si limitò alle minacce, il suo rivale ne rise; ma quando lo prese per la collottola, l'altro gli fece ingoiare una lingua di bue, un'espressione del paese per indicare un colpo di coltello. Pote­va la legittima difesa assolvere un modo simile di rendere vacante un posto di alguazil?
In Spagna gli alguazil sono molto rispettati, quasi quanto i conestabili in Inghilterra, ed è un'azione molto riprovevole maltrattarne uno.
Così il xnajo fu arrestato, messo in prigione e condannato dopo un lungo processo, dato che la giustizia è ancora più lenta che da noi.
Con un po' di buona volontà sarete d'accor­do con me che quest'uomo non meritava la sua to di chiedere il nome, stimato e temuto per il suo carattere coraggioso e intraprendente. Era un seduttore. Nessuno ballava meglio di lui, nes­suno gettava più lontano l'asta né conosceva più storie. Non era litigioso, ma gli bastava poco per accendersi come un fiammifero. Se accompagna­va dei viaggiatori con il suo trombone in spalla, nessuno ladro osava fermarli, anche se avevano le valige piene di dobloni.

Era un piacere vedere quest'uomo giovane, con la giacca di velluto appoggiata sulle spalle, passeggiare dondolando­si sulle gambe con un'aria di superiorità. In una parola, era un majo nel vero senso della parola, un dandy di classe inferiore e un uomo estrema­mente sensibile se punto sull'onore.
I Castigliani hanno un proverbio sui Valenciani che, secondo me, è completamente falso. Eccolo: "A Valencia, la carne è erba; l'erba è acqua; gli uomini sono donne e le donne... nul­la". Io certifico che la cucina di Valencia è eccel­lente e che le donne sono molto graziose, con la pelle più chiara che nel resto della Spagna. Per non parlare poi di cosa sono gli uomini di que­sta città.
C'era un combattimento di tori e il majo vo­leva vederlo, pur non avendo neanche un reale Puerta de los Serranos. Dall'alto della terrazza si scorgono il corso del Guadalaviar e i cinque ponti che lo attraversano, le passeggiate di Valencia e la ridente campagna che la circonda. Quando si è imprigionati fra quattro mura, è un piacere triste guardare i campi, ma è pur sempre un piacere e bisogna essere grati al carceriere, che permette ai detenuti di salire sulla piattafor­ma. Per chi è prigioniero, il più piccolo godi­mento ha il suo valore.

Il condannato sarebbe uscito da questa pri­gione per raggiungere la piazza del mercato, in cui doveva avvenire l'esecuzione, a cavalcioni di un asino e avrebbe attraversato le strade più ani­mate della città.
Mi sono trovato di buon'ora davanti alla por­ta de los Serranos, con un amico spagnolo che mi aveva gentilmente accompagnato. Pensavo di trovare una folla considerevole, che si fosse radunata sin dal mattino, ma mi sbagliavo. Gli artigiani lavoravano tranquillamente nelle loro botteghe e i contadini stavano lasciando la città, dopo aver venduto ile loro verdure. All'infuori di una dozzina di dragoni schierati accanto alla porta della prigione, non c'era nulla che indicas­se che stava per accadere qualcosa di straordina­rio. Non credo che si debba attribuire lo scarso interesse dei Valenciani per le esecuzioni a un eccesso di sensibilità. E non penso neanche che siano diventati disincantati verso questo genere di spettacoli, ormai senza attrattive per loro, come sosteneva l'amico che mi faceva da guida. Può darsi che questa indifferenza sia da attribui­re alle abitudini di laboriosità degli abitanti di Valencia. L'amore per il lavoro e il guadagno li distingue non solo dal resto degli Spagnoli, ma anche dagli Europei.

Alle undici, la porta della prigione si aprì.
Uscì una numerosa processione di francescani, preceduta da un penitente che portava un gran­de crocifisso. Al suo fianco camminavano due accoliti, con delle lanterne in cima a un lungo bastone. Il crocifisso era a grandezza naturale, di cartone dipinto con uno straordinario talento imitativo. Gli Spagnoli, che cercano di rendere terribile la religione, eccellono nel raffigurare le ferite, le contusioni e i segni delle torture patite dai loro martiri. Su questo crocifisso, destinato a un supplizio, non erano stati risparmiati il san­gue, la sanie e le tumefazioni livide. Era l'esemplare anatomico più spaventoso che si potesse vedere. Il portatore di questa orribile figura si fermò davanti alla porta. Dietro ai sol­dati, che si erano un po' avvicinati, si era radu­nato un centinaio di curiosi, abbastanza vicini da non perdere nulla di quello che sarebbe stato detto o fatto. Infine, apparve il condannato accompagnato dal suo confessore.

Non dimenticherò mai la figura di que­st'uomo. Era molto alto e molto magro e sem­brava avere una trentina d'anni. La sua fronte era alta, i suoi capelli folti e neri come il carbo­ne, dritti come i crini di una spazzola. I suoi occhi, grandi e infossati, sfavillavano. Era a piedi nudi, vestito d'un lungo abito nero sul quale era stata cucita, all'altezza del cuore, una croce rossa e blu, distintivo della confraternita degli agoniz­zanti. Il colletto della camicia era costituito da una lattuga plissettata, che gli ricadeva sulle spalle e sul petto. Una corda biancastra, che spic­cava sul nero del vestito, faceva più volte il giro del suo corpo e gli fissava con nodi complicati le braccia e le mani nella posizione della preghiera. Fra le mani teneva un crocifisso e un'immagine della Vergine. Il suo confessore, piccolo, grassoc­cio e con un volto molto colorito, aveva l'aria di un brav'uomo che faceva da molto tempo quel lavoro e ne aveva viste di tutti i colori. Dietro al condannato veniva un uomo pallido e gracile, con una fisionomia dolce e timida. Indossava una giacca scura e dei pantaloni e del­le calze neri. L'avrei scambiato per un notaio o un alguazil poco curato, se non fosse stato per il cappello grigio a larghe falde, come quelli che portano i picador nei combattimenti di tori. Alla vista del crocifisso, si tolse il cappello con rispet­to e notai una piccola scala in avorio fissata sul­la fascia come una coccarda. Era il boia.

Il condannato, che per passare attraverso la porticina era stato costretto ad abbassare la testa, si raddrizzò in tutta la sua statura, spa­lancò gli occhi smisuratamente grandi, abbracciò la folla con un rapido sguardo e respirò profon­damente. Sembrava respirare con piacere, come se fosse stato rinchiuso a lungo in una cella stret­ta e soffocante. Aveva un'espressione strana, non di paura, ma di preoccupazione. Sembrava rasse­gnato e non affettava né sicumera né coraggio. Pensai che in un'occasione simile mi sarebbe pia­ciuto avere lo stesso contegno.
Il confessore gli disse di mettersi in ginocchio davanti al crocifisso. Egli obbedì e si chinò a baciare i piedi di quell'immagine orrenda. In quel momento tutti gli assistenti erano commossi e osservavano un profondo silenzio. Il confessore lo notò, sollevò le mani per liberarle dalle lunghe maniche che gli avrebbero impedito i gesti oratori e cominciò a declamare con una voce forte e accentata, ma monotona per la ripetizione perio­dica delle stesse intonazioni, un discorso che ave­va probabilmente utilizzato in più di un'occasio­ne. Pronunciava con chiarezza ogni parola. Il suo accento era puro e si esprimeva in un buon castigliano, che forse il condannato capiva solo in modo imperfetto. Cominciava ogni frase con un tono di voce stridulo, poi saliva al falsetto e fini­va con un tono grave e profondo.

In breve, al condannato che chiamava fratel­lo, diceva: "Voi avete meritato ampiamente di morire e, nel condannarvi alla forca, i giudici sono stati indulgenti, perché i vostri crimini sono enormi". Fece un accenno agli omicidi commessi dal condannato, per poi dilungarsi sull'irreligiosità nella quale egli aveva passato la giovinezza, che era stata la causa della sua perdi­zione. Poi, animandosi a poco a poco: "Ma che cos'è il supplizio a cui state per andare meritata­mente incontro in confronto alle inaudite soffe­renze patite dal divino Salvatore per redimervi? Guardate il suo sangue, le sue piaghe...". E qui si dilungava nei dettagli dei dolori che mostrava per mezzo della brutta statua. La perorazione era migliore dell'esordio. Egli diceva, ma in modo troppo lungo, che la misericordia di Dio era infinita e che un vero pentimento avrebbe placato la sua giusta collera.
Il condannato si alzò in piedi, guardò il prete con aria truce e disse: "Padre, bastava che mi di­cesse che mi incammino verso la gloria. Andia­mo."

Il confessore rientrò nella prigione soddisfat­to del discorso. Il suo posto fu preso da due francescani, che sarebbero rimasti accanto al condannato fino alla fine.
Dapprima egli venne disteso sopra a una stuoia, che il carnefice tirò verso di sé senza vio­lenza, come se ci fosse un tacito accordo fra giu­stiziere e condannato. Era un rituale per rispet­tare alla lettera il testo della sentenza che diceva: "Impiccato dopo essere stato trascinato sul gra­ticcio".
Poi il disgraziato venne issato su di un asino, tenuto per la cavezza dal boia. I due francescani camminavano ai lati, preceduti da due lunghe file di monaci dello stesso ordine e di laici ap­partenenti alla confraternita dei desamparados. Non mancavano i gonfaloni e le croci. Dietro all'asino, venivano due alguazil in abito nero alla francese, con pantaloni e calze di seta, una spa­da appesa al fianco, su due cattivi cavallucci molto mal bardati e un notaio. Un picchetto del­la cavalleria chiudeva la marcia.

Mentre la pro­cessione avanzava lentamente i monaci cantava­no delle litanie con voce sorda. Alcuni uomini con il mantello andavano avanti e indietro lungo il corteo, tendendo agli spettatori dei piatti d'argento e chiedendo l'elemosina per i poveri disgraziati (por elpobre). I soldi erano destinati alle messe per le anime dei defunti. Per un buon cattolico che sta per essere impiccato deve esse­re una consolazione vedere i piattini riempirsi velocemente di grosse monete. Tutti erano gene­rosi. Anch'io, ateo come sono, ho fatto la mia offerta con un sentimento di rispetto.
Per la verità, io amo queste cerimonie cattoli­che, alle quali vorrei tanto credere. In un caso come questo, esse hanno il potere di colpire la folla molto di più del carretto, dei gendarmi e del corteo meschino e ignobile che in Francia accompagna le esecuzioni. Inoltre, ed è soprat­tutto per questo che amo queste croci e queste processioni, esse contribuiscono sicuramente ad addolcire gli ultimi istanti del condannato. La lugubre pompa lusinga la sua vanità, l'ultimo, sentimento a morire. Tutto contribuisce a stor­dirlo e ad impedirgli di pensare al destino che lo attende: i monaci che ha riverito sin dall'infan­zia e che adesso pregano per lui, i canti, la voce degli uomini che chiedono l'elemosina per fargli dire delle messe. Se gira il capo a destra, ci sono francescani che gli parlano dell'infinita miseri­cordia di Dio. A sinistra, un altro francescano è pronto a esaltare la potente intercessione di San Francesco. Va al supplizio come un pusillanime fra due ufficiali che lo sorvegliano e lo esortano. Non c'è un momento di requie, come direbbe il filosofo. Tanto meglio. La continua agitazione in cui lo si tiene impedisce al condannato di abban­donarsi ai suoi pensieri, che lo tormenterebbero in modo ben peggiore.

Ho capito perché i monaci, soprattutto quel­li degli ordini mendicanti, esercitano un'influen­za così grande sul popolino. Essi sono in realtà il sostegno e la consolazione dalla nascita alla morte e questo non dispiaccia ai liberali intolle­ranti. Che lavoro ingrato e terribile è quello di assistere per tre giorni un uomo che sta per esse­re giustiziato. Io credo che se avessi la disgrazia di essere impiccato, non mi dispiacerebbe avere due francescani con cui parlare.
La processione percorreva le vie più ampie e seguiva un tragitto molto tortuoso. Il mio amico ed io imboccammo una scorciatoia, per trovarci di nuovo sul passaggio del condannato. Notai che la sua figura era molto più curva di quando era uscito dalla prigione. Si accasciava a poco a poco e la testa gli ricadeva sul petto, come se fos­se sostenuta soltanto dalla pelle del collo. Il suo viso, tuttavia, non mostrava paura. Guardava fis­so l'immagine che aveva fra le mani e distoglieva lo sguardo solo per posarlo sui due francescani, che sembravano prestargli molta attenzione.

Avrei voluto andarmene, ma fui indotto a recarmi sulla grande piazza e a salire in casa di un mercante, il cui balcone dava sulla piazza. Lì sarei stato libero di guardare il supplizio o di rientrare in casa, se avessi voluto sottrarmi allo spettacolo. Ci andai.
La piazza era ben lungi dall'essere piena. Le venditrici di frutta ed erbe non si erano sposta­te. Si circolava dappertutto facilmente. La forca, sormontata dagli stemmi degli Aragona, era col­locata davanti a un elegante palazzo moresco, la Borsa della Seta (la Lonja de Seda). Le altre case che si affacciavano sulla piazza di forma allunga­ta, erano piccole e sovraccariche di piani.
Davanti a ogni finestra c'era un balconcino di ferro che, da lontano, le faceva assomigliare a grosse gabbie.

Molti balconi non avevano spettatori. Su quello in cui io presi posto trovai due signorine molto graziose, fra i sedici e i diciotto anni, comodamente sedute su delle sedie, che si sven­tagliavano con l'aria più disinvolta del mondo. Il loro vestito di seta nera, molto appropriato, le loro scarpe di raso e le mantiglie ornate di pizzo mi facevano pensare che fossero le figlie di qualche borghese benestante. Quando mi resi conto che capivano e parlavano correttamente lo spa­gnolo, benché fra di loro parlassero il dialetto valenciano, fui confermato in questa opinione.
In un angolo della piazza, abbastanza vicino alla forca, era stata innalzata una piccola cappel­la e tutt'intorno erano schierati i volontari reali­sti e le truppe di, linea.

Essi aprirono i ranghi per far passare la pro­cessione. Il condannato venne tirato giù dal suo asino e portato davanti al patibolo. I monaci lo circondavano, egli era in ginocchio e baciava spesso i gradini che portavano al capestro. Non so che cosa gli venisse detto. Il boia, dopo aver esaminato la corda e la scala, si avvicinò al­l'ostaggio sempre prosternato, gli mise la mano sulla spalla e, secondo l'usanza, gli disse: "Fra­tello, è ora".
Era rimasto solo un monaco con lui, gli altri lo avevano abbandonato. Adesso, a quel che sembrava, era il boia il padrone della sua vitti­ma. Mentre accompagnava il condannato alla scala, il giustiziere gli aveva messo in testa il suo grande cappello, avendo cura di calarglielo sugli occhi, per impedirgli di vedere la forca. Ma il condannato sembrava volerlo sollevare, dando dei colpi con la testa. Voleva dimostrare di ave­re il coraggio di guardare in faccia lo strumento del suo supplizio.

Suonava mezzogiorno quando il boia comin­ciò ad ascendere la scala fatale, tirandosi dietro il reo, che saliva con difficoltà camminando a ritroso. La rampa era larga e aveva la ringhiera solo da un lato, dal quale saliva il monaco, men­tre il boia e il condannato salivano dall'altro. Il monaco parlava in continuazione e gesticolava molto. Arrivati in cima, mentre il giustiziere metteva prontamente la corda al collo del con­dannato, mi dissero che il monaco gli stava facendo recitare il Credo. Poi alzò la voce e dis­se: "Fratelli, unite le vostre preghiere a quelle di questo povero peccatore". Vicino a me, una voce dolce rispondeva con emozione: "Amen!" Girai la testa e vidi una delle mie graziose valenciane. Le sue guance erano colorite e agitava velocemente il ventaglio. Guardava con atten­zione in direzione della forca. Girai lo sguardo anch'io da quella parte. Il monaco stava scen­dendo i gradini e il condannato era sospeso in aria, con il boia sulle spalle e il valletto che lo tirava per i piedi.  

P.S. — Il vostro patriottismo forse non perdo­nerà la mia parzialità per la Spagna ma, poiché siamo nel capitolo dei supplizi, vi dirò che prefe­risco le esecuzioni spagnole alle nostre. E prefe­risco di gran lunga anche le loro galere a quelle in cui noi mandiamo ogni anno circa milledue­cento furfanti. Badate che non parlo dei presidios d'Africa, che non ho mai visto ma di quelli di Toledo, Siviglia, Granada e Cadice, dove ho visto un gran numero di presidiarios (galeotti) che non mi sono parsi troppo infelici. Essi lavoravano a fare le strade o a ripararle. Erano abbastanza mal vestiti, ma la loro fisionomia non esprimeva la cupa disperazione dei nostri galeotti. Mangiava­no dentro a grandi marmitte un puchero simile a quello dei soldati che facevano loro la guardia e dopo fumavano un sigaro all'ombra. Ma quello che mi è piaciuto in modo particolare è che qui la gente non li respinge come in Francia. La ragione è semplice.

In Francia, gli uomini che sono in galera si sono resi colpevoli di furto o peggio. In Spagna, invece, nel corso dei secoli sono state condannate all'ergastolo persone one­ste, che avevano opinioni non conformi a quelle dei governanti. Anche se il numero dei condan­nati politici è molto basso, è sufficiente per influenzare l'opinione pubblica nei riguardi di tutti i galeotti. E meglio trattare bene una cana­glia che mancare di rispetto a un galantuomo. Si offre loro il fuoco per accendere i sigari, li si chiama amici, compagni. I guardiani non li fanno sentire uomini di un'altra specie.
Se questa lettera non sembrasse troppo lunga, vi racconterei un incontro che ho avuto, poco tempo fa, che dimostra quali sono le maniere del popolo verso i presidiarios.

Lungo il cammino da Granada a Baylen, in­contrai un uomo alto, calzato di espadrillas, che camminava con un buon passo militare. Era seguito da un piccolo spaniel a pelo lungo. I suoi abiti avevano una foggia particolare ed erano diversi da quelli dei contadini. Anche se il mio cavallo andava al trotto, egli mi seguiva senza difficoltà. Cominciò a parlare con me e diven­tammo presto buoni amici. La mia guida si rivol­geva a lui chiamandolo Vostra grazia (Usted). Parlavano di un certo signore di Granada, che omandava il presidio e che entrambi conosce­vano. All'ora di pranzo, ci fermammo davanti a una casa dove c'era del vino. Cuomo con il cane tirò fuori dal sacco un pezzo di merluzzo salato e me lo offrì. Gli proposi di unire il suo pranzo al mio. Mangiammo tutti e tre di buon appetito e bevemmo dalla stessa bottiglia, perché non c'era neanche un bicchiere nel giro di una lega.
Gli chiesi perché viaggiasse con un cane così gio­vane. Mi rispose che il cane era la ragione del suo viaggio. Stava andando a Jaen, per ordine dal suo comandante e doveva consegnare l'ani­male a un amico di questo. Vedendolo senza uniforme e sentendolo parlare del suo coman­dante, gli chiesi: "Siete dunque micheletto? "No. Presidiario". Fui sorpreso. "Come avete fatto a non riconoscerlo dall'abito?" mi chiese la guida, che era un onesto mulattiere. I suoi modi non cambiarono minimamente e, dopo avermi offerto la bottiglia per primo, nella mia qualità di caballero, la offrì al galeotto e bevette solo dopo. Lo trattava con la gentilezza che le perso­ne del popolo hanno fra di loro in Spagna.

"Perché dunque vi trovate in galera?" chiesi al mio compagno di viaggio.
"Per disgrazia, Signore. Mi sono trovato in mezzo ad alcuni morti. (Fuépor una desgracia. Me hallé en unas muertes.)
"Come diavolo è successo?"
"Ecco cosa avvenne. Ero micheletto. Insieme a una ventina di compagni, scortavo un convo­glio di prigionieri di Valencia. Lungo il percorso, i galeotti si rivoltarono e, contemporaneamente, i loro amici vennero a liberarli. Il nostro capita­no era in un grande imbarazzo. Se avesse lascia­to fuggire i detenuti, sarebbe stato responsabile dei loro crimini mentre erano in libertà. Prese allora una decisione drastica. Ci urlò: Fuoco sui prigionieri!' Noi sparammo, uccidendone quin­dici e respingemmo anche i loro amici. Questo avveniva al tempo della famosa costituzione. Quando tornarono i Francesi e la revocarono, noi micheletti finimmo sotto processo perché fra i presidiarios uccisi c'erano diversi signori (caballeros) monarchici, che erano stati imprigionati dai costituzionalisti. Il nostro capitano era morto e noi pagammo le conseguenze di quanto era successo. Ma la mia condanna sta per finire e il mio comandante, che ha fiducia in me perché mi comporto bene, mi invia a Jaen per consegnare al comandante del presidio una lettera e il cane".

La mia guida era un monarchico, mentre il prigioniero era evidentemente un costituzionali­sta, ma si intendevano a meraviglia. Quando ci rimettemmo in viaggio, il cane era così affatica­to che il presidiario fu costretto a caricarselo sul­le spalle, avvolto nella giacca. La conversazione di quest'uomo mi divertiva molto. Inoltre, i siga­ri che gli avevo offerto e il pranzo che avevamo condiviso lo avevano fatto affezionare a me e avrebbe voluto seguirmi fino a Baylen.
"La strada non è sicura - mi diceva - io pos­so procurarmi un fucile da un amico di Jaen, dopo di che anche se incontrassimo una mezza dozzina di briganti, non vi ruberebbero nemme­no un fazzoletto."
"Ma - gli dicevo io - se non rientrate al pre­sidio, rischiate di avere un aumento della pena, magari di un anno!"
"Bah! Che importa? Voi mi darete un certifi­cato che attesti che vi ho accompagnato. D'altra parte, non sarei tranquillo a lasciarvi solo per quella strada..."

Io avrei acconsentito a farmi accompagnare da lui, se non si fosse inimicato la mia guida. Ecco come avvenne. Dopo aver seguito per più di otto leghe i nostri cavalli che, quando il terre­no lo permetteva andavano al trotto, egli arrivò a dire che li avrebbe seguiti anche al galoppo. La mia guida lo schernì. I nostri cavalli erano tutt'altro che dei ronzini e il terreno davanti a noi era piano per un quarto di lega, mentre lui era svantaggiato dal peso del cane sulla schiena. Si sentì sfidato. Noi partimmo, ma quel diavolo d'uomo aveva veramente delle gambe da miche­letto. I nostri cavalli non riuscirono a superarlo e l'amor proprio del loro proprietario non pote­va perdonare al presidiario l'affronto che gli era stato fatto. Smise di parlargli e, quando arrivam­mo a Campillo de Arenas, il galeotto, con la discrezione che caratterizza gli Spagnoli, capì che la sua presenza era importuna e si allontanò.

 
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